[trad. it. di S. Costagli, L’orma, Roma 2016]
Alexander Kluge è uno dei nomi di punta del Nuovo cinema tedesco degli anni Sessanta-Settanta. Tuttavia, nonostante alcuni suoi film abbiano avuto importanti riconoscimenti – su tutti il Leone d’oro a Artisti sotto la tenda del circo: perplessi (1968) –, la sua notorietà in Italia è molto inferiore a quella di Fassbinder, Herzog o Wenders. Del resto, Kluge non concede molto al pubblico: basti pensare ai procedimenti stranianti – tra Brecht ed Èjzenštejn – che utilizza per fare in modo che lo spettatore assuma un ruolo attivo di fronte alle immagini. Questa concezione estetica informa anche la sua attività letteraria, che in patria ha ottenuto premi prestigiosi, tra cui il Kleist nel 1985. In Italia sono state pubblicate alcune sue opere rilevanti: Biografie (1966), Organizzazione di una disfatta. Stalingrado (1967) e Nuove storie. Spaesato nel tempo (1982). A distanza di qualche decennio, questo inesausto sperimentatore torna nelle librerie italiane con Antico come la luce. Storie del cinema (Geschichten vom Kino, 2007).
Da Pirandello a Fitzgerald, da Moravia a Auster: molti scrittori hanno messo il cinema al centro di una loro opera, ma nessuna di esse ha un rapporto intimo con la forma filmica quanto Antico come la luce, governato dalla tecnica del montaggio. Kluge accumula brevi racconti, riflessioni, aneddoti e li monta in modo da garantire una sottile coerenza tra le parti, ma soprattutto sollecitando il lettore a creare delle libere associazioni tra di esse. Ecco allora che il «principio cinema» («antico quanto la luce del sole e le rappresentazioni del chiaro e dello scuro nelle nostre teste») tiene insieme le esperienze di pionieri come Edison e i Lumière, le riprese della Tigre di Eschnapur di Fritz Lang e le proiezioni cinematografiche nella Beirut degli anni Zero martoriata dai bombardamenti. Eppure il collante è troppo debole perché lettore non si senta chiamato a suturare le fratture tra le storie. In altri casi la coesione è più forte, come negli stravaganti Quattordici modi per descrivere la pioggia, che iniziano evocando le riprese del capolavoro di Joris Ivens Regen, proseguono con un fallimentare progetto di documentario sulla «pioggia continua» nel Magdeburgo ai tempi della DDR, si soffermano sui problemi di una troupe intenta a filmare l’uragano Charley in Florida e terminano con l’ironia del narratore sull’impossibilità di riprendere un eventuale diluvio universale, visto che, come dice un illustre geologo, forse durerebbe 12 milioni di anni. Questa urgenza documentaria serpeggia nel libro, in particolare nel racconto del tenente colonnello Gerd Jänicke, che nella Vienna assediata dalle truppe sovietiche ordina di registrare con cinque cineprese l’ultimo atto del Crepuscolo degli dei per tramandare la musica tedesca, slegata dalle vicende politiche del suo paese. Decenni dopo il materiale viene ritrovato e chi lo ascolta ha invece la sensazione che i rumori della macchina da presa, dell’artiglieria e delle bombe abbiano trasformato la musica di Wagner «da un’antonomasia del XIX secolo in una PROPRIETÀ del XX secolo».
La manipolazione dell’opera d’arte torna nell’ultima storia, quella del proiezionista Sigrist che per non rincasare in ritardo a causa di un dibattito in sala esageratamente lungo decide di eliminare due atti del film successivo: «Gli sarebbe piaciuto ricevere l’incarico di migliorare sempre i film in quella maniera». È una frase che fa venire in mente il periodo in cui questa pratica era diffusa, le origini del cinema. Così torniamo idealmente al clima un po’ anarchico in cui è ambientato l’inizio del libro, e alle figure che abbiamo incontrato aggiungiamo gli esercenti delle sale, che rimontavano i film senza tante preoccupazioni filologiche, ma con una certa creatività. Assomigliano a loro Sigrist e i lettori a cui si rivolge Kluge.
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